“Ti
ricordi quella volta”, mi dicesti, “in cui ti ho cercato per
giorni interi senza trovarti. Ero preoccupato e stanco, di correrti
dietro a vuoto, come un cane con la sua coda”.
Cane,
coda? Di che parli? Sono sempre stata qui. Sì, forse, te lo concedo,
ho avuto anni travagliati. Ingombranti da portare. Ma per te ero
sempre qui.
“Sempre
qui ma con l’animo altrove. A correr dietro a sogni vaghi, a vite
sempre in costruzione. Fondamenta gettate e poi rifatte, una, tre,
dieci volte e più. Sfiancante da seguire”.
Eri
teso mentre parlavi. Cercavi dentro te le parole giuste, ma ti
conosco: le parole le avevi scelte con cura, in chissà quanti
monologhi mentali, per poterti presentare a me a dire quello che
pensavi da tempo.
Bastardo.
Ecco,
l’ho detta finalmente, la parola.
Dovrei
provar sollievo. Riconoscerti per ciò che sei, fuori dagli sguardi
menzogneri dell’amante, compagna, moglie. Vederti finalmente senza
la struttura che ti avevo voluto dare: uomo perfetto, amante ideale,
bello brillante giovane.
Per
te ho lasciato uomini, di gran lunga migliori. Ho tagliato i
ponti con quello che avrei dovuto essere. Rinunciato, barattato. Scelto.
Dovrei
provar sollievo.
“Sei
sicura di quello che fai?”
Anche
tu, papà, ti ci metti anche tu?
“Sei
sicura di quello che fai?”
Sì.
Cioè, forse, non so.
“Sei
sicura di quello che fai?”
Sì,
sono sicura. Sicurissima. Assolutamente certa.
“E’
molto giovane”.
Non
così tanto giovane.
“Tutti
quegli anni tra voi. Peseranno”.
Ma
perché? Cioè, chi lo dice?
“Peseranno”.
Avevi
ragione (“tutti quegli anni”). Ma ti prego basta. (“peseranno”).
Il
cielo fuori è grigio, ancora. In questa stanza c’è poca luce. Va
avanti da settimane. Piove di continuo, da talmente tanto che mi
sembra impossibile possa esserci mai stato il sole.
Anche
quando ti conobbi pioveva. Entrai nel bar sottobraccio alla mia
amica, quella che tu conoscevi bene. Ridevamo. La pioggia ci aveva
colto all’improvviso, obbligandoci a una corsa giovanile e inutile
per cercar riparo.
Tu
eri seduto a un tavolo, al solito da solo, con la tua aria da
maledetto che tanto ti piaceva. Giocavi a fare il poeta. Davanti a te
un liquore dal gusto amaro (te ne chiesi), il quaderno da cui non ti
separavi mai, in mano la penna. Giocavi a buttar giù pensieri
sconnessi, guardando il mondo da dietro gli occhiali portati più per
vezzo che per necessità. La barba sfatta, i capelli fintamente
scompigliati, quell’aria altezzosa e superba.
Mi
colpì il modo in cui parlavi. La tua voce aveva una cadenza lenta e
volli vederla dolce.
Sorridesti
nel vederci, me e la mia amica, coi capelli bagnati, starnutire
all’unisono.
Quella
sera, a casa, ti pensai. Mi stupì rendermene conto. Poi, i giorni
seguenti, passai più volte in quel bar, sperando di trovarti. Non so
cosa cercassi venendo lì, se te oppure me.
Mi
scoprivo la sera a pensare sempre più spesso a quello che avevo.
Tiravo giù le somme di una vita finora senza pensieri. Mio marito,
il mio ex marito, non si accorse di nulla.
Quando
gli dissi che me ne andavo restò attonito, incapace di comprendere.
Gli sfuggiva il senso di una scelta che gli parve avventata e
stupida.
“Ti
pentirai”
Pensa
a te.
“E’
una infatuazione, un capriccio”.
Non
capisci, non hai mai capito.
“Buttare
tutto all’aria per un ragazzino”
Non
è un ragazzino. E’ molto più uomo di quanto tu non lo sia mai
stato.
“Ti
pentirai”.
Forse.
Son fatti miei
“Un
ragazzino”.
Avevi
ragione anche tu (“ti pentirai”). Contento ora? (“un
capriccio”). Ma infatuazione certo no.
Mi
portasti a vivere in questo posto. Mi piaceva. Non aveva nulla di
quello che avevo lasciato e per questo mi piaceva. Barattare una cosa
per un'altra simile non avrebbe avuto senso. Meglio stravolgere
tutto. Ricominciare da capo. Riprendere in mano i fili interrotti
anni prima per amor di convenienza. Rituffarsi nuovamente nei sogni
giovanili, con qualche ruga in più, con un conto in banca migliore,
le spalle coperte da una precedente vita. L’occasione per mettere
in pratica tutto quello che avrei voluto fare. Continuare a lavorare,
certo, cercando libri da pubblicare, come ho sempre fatto. Ma con
spirito diverso, l’arte per l’arte e non per guadagno.
Era
quello che tu dicevi sempre, che mi ripetevi ogni qualvolta cercavo
di indirizzare le tue cose. Criticavi il mio voler cercare il
consenso del pubblico, dandogli quello che si aspettava. Belle
storie, semplici e lineari. Passatempi per la mente più che nuova
linfa.
Ti
introdussi nel mondo dei libri. Pubblicasti, finalmente, uno, poi un
altro. Eri bravo, devo ammetterlo.
Mentre
tu godevi del successo io cercavo nuove strade, per te e per me. Le
tue si aprivano facili, le mie erano tortuose e strette.
“Lavori
troppo”
Non
mi sembra.
“Lavori
troppo”
Cerco
di realizzare.
“Hai
l’aria stanca”
Non
è facile mandare avanti le pubblicazioni e poi scrivere, anche.
“Stasera
esco”
Va
bene. Ho da scrivere.
“Stasera
non ci sono”
Di
nuovo? Dove vai?
“Non
ci sono”
Hai
un’altra?
“Che
sciocchezza!”
Hai
un’altra?
“Non
complichiamo le cose”
Hai
un’altra!
“Lavori
troppo”
Bastardo.
Questo
bagno schiuma è l’unica cosa che mi hai lasciato. Lo usavi sempre
e a lui devi quell’odore dolce che lasciavi in giro. Non eri tu.
Era un volgare sapone alla pesca.
Mentre
lo verso nell’acqua calda della vasca mi accorgo che è quasi
terminato. Non so se ne comprerò un altro simile. Mi ricorda troppo
te.
Forse
sì. Una volta ancora.
Mi
immergo nell’acqua cercando sollievo. Il vapore che sale riempie la
stanza di condensa. Sulle mattonelle cominciano a formarsi una
miriade di gocce, pesanti, scivolano in basso, formando rivoli di
acqua dalle molteplici forme.
Acqua.
Spinta vitale. La cerco consapevolmente ora. Mi immergo nell’acqua
tutti i giorni e ci resto ore. Tento di riprendermi ciò che mi hai
tolto affidandomi all’elemento della nostra storia, scivolata via
veloce, come un fiume gonfio di pioggia.
Chissà
dove sei ora, giochi ancora a fare il poeta?
“Piove
lacrime di sale
La
terra”
Che
stronzata.